“Ma hai visto come hanno ridicolizzato il nostro profeta Muhammad? Continuano ad umiliarci. Ci hanno insultato nell'intimo e davanti al mondo intero». Non sono le parole riprese da un barbuto a piazza Tahrir, piuttosto che a Benghazi. Sono le considerazioni di un ragazzo qualunque, che non crederesti nemmeno di fede musulmana: scarpe Converse ai piedi e jeans a vita bassa mentre con gli amici italiani discute a Campo dei fiori, a Roma, e non all'entrata della moschea, pur se è venerdì. La sua considerazione a bruciapelo è la più lucida rappresentazione del senso di appartenenza che sta dietro a quelle immagini della folla che grida e incendia bandiere americane, in segno di odio e guerra verso l'Occidente. Appartenenza a un credo anche se non praticato effettivamente, e magari nemmeno conosciuto nella giusta misura. Ma che importa. E' quell'idea di appartenenza che questa folla sente violata e minacciata a riempire le piazze inferocite. Piazze gremite di tutto e di più. Perchè l'appartenenza, e questo i salatiti lo hanno capito molto bene, è l'unico valore che unisce in questo momento. C'è chi davanti all'ambasciata americana, come testimoniano i giornalisti di al-arabiya, non ha nemmeno visto il filmato incriminato, ma è li perchè glielo hanno detto: «Hanno un'altra volta offeso l'islam, il profeta, tutti noi». Le fragilità, gli insuccessi e le insicurezze trovano conforto e riparo intorno a quel che rimane e gelosamente si vuol custodire: l'appartenenza a una religione che è identità collettiva. A doverci far paura è questa unione che i fondamentalisti, in questo caso i salatiti, riescono a coltivare nello scontro (il male) più che nell'incontro (il bene). Arrivando sino a un ragazzo di seconda generazione a Campo dei fiori. Più che la primavera araba oggi regna l'anarchia e la confusione ideologica, mentre si lascia serpeggiare senza timore, l'ideologia più buia, intransigente e regressiva. Sia chiaro, il diritto di indignarsi e manifestare contro quell'oscenità che pretende il nome di "film" è sacrosanto. Perché un conto è raccontare e criticare, un altro è denigrare e manipolare fatti storici. La storia, e celo insegna la Shoa, va difesa ogni giorno, che sia nostra o degli altri, perchè è un bene comune, perchè è quella memoria che aiuta ad unirci, a riflettere e magari a ripensarci. Preferibilmente migliori. Giusto dunque indignarsi, ma è intollerabile la violenza barbara e l'impulso ad attribuire all'intero "Occidente" un insulto che è il frutto marcio dell'odio di alcuni. Tanto più che dietro quelle violenze – questo deve essere chiaro- c'è un pericolo molto concreto: la strumentalizzazione. È per questo che hanno fatto male i leader arabi, a partire da Morsi, a non equilibrare meglio il linguaggio tra l'indignazione per l'offesa subita e la denuncia e il pericolo incombente della violenza che ne sta conseguendo. La piazza continua ad accendersi anche per questo. Si sono sentite parole ricercate e toccanti in difesa della sacralità del profeta e la dignità dei musulmani, ma non altrettanto forti contro chi si arroga il diritto di togliere la vita altrui. Sarebbe stato opportuno dare il giusto peso a questa violenza inaudita che sotto la parola «linea rossa» giustifica la morte di chi ha la sola colpa di rappresentare l'Occidente. La vera linea rossa che deve valere per tutti è solo l'omicidio. Così facendo si lascia campo libero ai fanatici, al caos ideologico, che magari porterà qualche consenso iniziale, ma è solo un populismo pericoloso che non fa altro che il gioco della destra islamofoba, di chi vuol dimostrare che l'islam è fatto solo di taglia-teste, incapaci di manifestare pacificamente il proprio dissenso.
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