Solo ieri si è chiuso il testo del decreto attuativo per la regolarizzazione di quell'immigrazione che lavora sottotraccia. Nel nero e nell'illegalità, privata di qualsiasi tutela. Un passo utile. Sullo sfondo però di una politica, quella italiana sul tema immigrazione, che continua a fare passi con il contagocce. Una politica per anni anacronistica e fondata sull'autodifesa tout court più che su una visione a lungo raggio, di quella che sarà l'Italia nel prossimo futuro, in un mondo globale e non di provincia. Due sono i nodi cruciali che non possono più attendere ormai e dovrebbero essere presi in considerazione, anche nell'ottica della crescita economica, nell'agenda del governo Monti, magari per affidarli poi alla prossima legislatura: la riforma della legge sulla cittadinanza e la cosiddetta legge Bossi-Fini, che di fatto non è altro che un vero ostacolo all'integrazione degli immigrati. E non solo per il mercato del lavoro, come dimostrano le sanatorie o i decreti flussi, piuttosto che questa ultima regolarizzazione.
È paradossale che vogliamo la qualità e la crescita, ma dimentichiamo come persistono ancora (grazie alla rigidità della Bossi-Fini) le difficoltà per gli stranieri di ottenere il riconoscimento dei titoli di studio e dei titoli professionali acquisiti all'estero nonché l'impossibilità di accedere a concorsi pubblici, solo per fare qualche esempio. Se seriamente stiamo voltando pagina riformando il paese di tutti quei deficit che hanno atteso per lungo tempo, allora è un vero peccato lasciare indietro questa risorsa fondamentale che non può più essere considerata di cittadini di serie B, perché loro sono anche il nostro avvenire.
Non ci vuole un cannocchiale per capire come il nostro futuro sia fatto anche dell'immigrazione, quando nelle scuole vediamo bambini di ogni etnia uscire ed entrare da quel luogo dove si formano le menti e il nostro futuro. Ma abbiamo ancora tutt'oggi una legge sull'immigrazione, la n. 189/2002 di nome Bossi-Fini, su cui non è più d'accordo neppure più il suo cofondatore; e una legge sulla cittadinanza (n. 91/1992) che risale a vent'anni fa.
Che sia chiaro, l'emersione dal nero, con questa regolarizzazione alla Monti, è un bene per la salute del nostro paese, perché si investe prima di tutto nella legalità e si affronta se pur di traverso il tema immigrazione. Ma rimane – ed è un dovere ricordarlo – solo un frammento di quel complicato puzzle che ancora attende la mano matura, e non solo severa ma anche realista e intelligente, che possa ricomporlo.
Sono molti gli indicatori che ci segnalano quanto siamo fuori dai tempi prestabiliti per essere al passo con il progresso sociale, economico e di integrazione della nostra risorsa immigrazione. Arrivano allarmanti casi di chi parte per un altro paese in Europa o ritorna al paese d'origine deluso dall'Italia. E non è solo la crisi a dettare le regole: a sentire i racconti di coloro che se ne vanno c'è anche una certa disillusione verso le politiche d'integrazione. E come se non ci si senta riconosciuti. Soprattutto se ci sono i figli di mezzo. Nati ma ancora non riconosciuti come cittadini italiani. Stiamo, in poche parole, sprecando una importante risorsa che abbiamo.
Impegnarci a favorire l'integrazione sociale e professionale degli immigrati che vivono nel nostro paese e ci lavorano legalmente non è solo una questione di equità, è un discorso di utilità. Perché serve all'Italia per tornare a crescere, utilizzando meglio il capitale umano che è già tra noi e incentivando l'arrivo di stranieri più qualificati.
La nostra Italia non è l'America certo, dove c'è chi può arrivare senza nulla e diventare il direttore di una banca grazie allo studio e al merito. Ma non è possibile che ancora oggi, con una quarantina di anni di emigrazione nel nostro paese, un cameriere nasce e muore cameriere, e se ripone una minima speranza nel figlio deve aspettare che questo abbia 18 anni per presentarlo come italiano al paese dove è nato. Con tutti i cavilli burocratici del caso, che rendono a questi ragazzi la vita infernale e sicuramente li fa sentire meno italiani al momento della maturità, non senza qualche ragione. Stiamo praticamente investendo in una società di disintegrati.