La presa di posizione della Germania illumina ormai una realtà chiara: l'Europa non ha alcuna intenzione di condividere l'onere dell'accoglienza di fronte alla massa di immigrati che sta arrivando in Italia dal Nord Africa.
Non è una buona notizia per noi, ma la questione va affrontata con realismo. E valutata sotto due aspetti. Quello legale e quello più generale della politica e della solidarietà europea. Sul primo fronte la Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen non lascia spazio a dubbi. «Gli stranieri in possesso di un titolo di soggiorno rilasciato» da un Paese Schengen «possono circolare liberamente per un periodo non superiore a tre mesi nel territorio» di altri Stati aderenti. Devono però soddisfare i requisiti indicati all'articolo 5. E quindi: avere un documento valido; disporre di mezzi di sussistenza sufficienti oppure essere in grado di procurarseli; non essere pericolosi per l'ordine pubblico.
Dunque il principio della libera circolazione cui si appella l'Italia c'è. Ma ci sono anche i paletti cui si richiama la Francia. Parigi, perciò, è inattaccabile nella sua dura presa di posizione. Almeno da un punto di vista legale. Perché sul piano politico-cooperativo la questione cambia di molto. È quello stesso articolo 5 della Convenzione a prevedere la possibilità da parte di un paese membro a «derogare» ai "paletti" qualora lo ritenga necessario «per motivi umanitari». E in questo caso oltre all'umanità dovrebbe scattare anche un principio di responsabilità e condivisione continentale.
Gli arrivi di queste settimane si inseriscono in una situazione del tutto eccezionale. Doppiamente eccezionale. Da una parte, infatti, abbiamo una vera e propria guerra, in Libia, che di fatto ha riaperto la valvola attraverso cui arrivano i profughi dal centro Africa. Un dramma umano che ci ha buttato in faccia la testimonianza di come si muore in mare in 220 persone. Uomini, donne e bambini scappati da quell'inferno chiamato Somalia o Eritrea. E morti in mare. In quel mare di mezzo che è come la terra di nessuno. Ed è nella terra di nessuno che si vede l'umanità e chi siamo veramente.
Dall'altra ci sono le migliaia di tunisini che nella ritrovata libertà cercano un futuro nuovo. Non sono i poveri rifugiati. Sono gli stessi ragazzi che abbiamo visto fare la rivoluzione contro l'ingiustizia che subivano nel loro paese. Sono giovani così come i nostri. Sono in una fase eccezionale della loro storia, una storia condivisa in molti passaggi proprio con la Francia che ora non li vuole.
In entrambe i casi il chiamarsi fuori di Parigi non può che apparire stridente con il ruolo che sta avendo la Francia sia in Tunisia sia in Libia. E allora non sarebbe l'ora di guardare con solidarietà e realismo a questo fenomeno cercando di trovare una politica che non guardi solo agli interessi politico-elettorali più immediati? La lezione dell'appoggio ai regimi caduti nel Nord Africa dovrebbe bastarci a capire che non è più tempo di vinti e perdenti. Ma è il tempo di compromessi. È su questa base che deve incamminarsi un'idea di politica dell'immigrazione europea e di rapporti con la sponda sud del mediterraneo.