«Dove abiti?». «In via Gioberti». Meglio rimanere sul vago. Quel palazzo grigio era una vergogna da nascondere. E per una bambina da poco arrivata dal Marocco dire «abito in via Gioberti» permetteva di nascondere quella vergogna.
In via Gioberti, appena al di là del recinto di quel suo palazzo grigio-vergogna, c'erano le villette. Dove la sua fantasia da bambina le faceva sognare di abitare. E così, senza tanti approfondimenti, lasciava intendere agli altri che viveva proprio lì, in quelle case bianche, ordinate e silenziose, con prati verdi e fiori colorati. Villette che ogni giorno, tornando da scuola con la cartella sulle spalle, s'incantava a vagheggiare sfiorando con le mani le ringhiere che dividevano lei dall'altro mondo.
Quanti pianti e ribellioni con gli altri fratelli prima di arrivare al palazzo grigio! Perché, nonostante fossimo arrivati in Italia da pochi anni, quel brutto palazzo grigio lo avevamo imparato a conoscere, eccome. Già dai banchi di scuola. Avevamo capito che abitare lì significava percorrere un triste cammino: quello della separazione, del degrado, della discriminazione, della frustrazione per essere così lontani e diversi dagli altri compagni.
Eppure sembrava essere l'unica possibilità per chi, straniero, chiedesse una casa popolare. Per chi non poteva spendere molti soldi. Anche se nella piccola cittadina, di case popolari, oltre al palazzo grigio, ve ne erano altre, sparse qua e là. Ma niente da fare: per i marocchini c'era solo quella opportunità. Il palazzo grigio.
Sui citofoni, venti anni fa, i nomi degli abitanti variavano da Calogero a Salvatore. Erano quasi tutti meridionali. Poi però sempre più Mohamed, Mostafa, Abdellah, Youssef e ancora Samir, Salaheddin, Said e poi ancora Mohamed. Sempre più marocchini e meno meridionali. Sono gli ultimi arrivati, ed è lì che devono stare. Tutti insieme, concentrati e, soprattutto, separati da tutti gli altri.
Oggi quella bambina è cresciuta, ma il palazzo grigio è sempre lì, a tre chilometri dal centro della piccola cittadina. Simbolo di come in Italia ci si è organizzati o, meglio, non ci si è organizzati, in tema d'immigrazione e in particolare nelle politiche abitative, che sono determinanti per creare e pensare le società del futuro. A fare il resoconto, da vent'anni a questa parte, c'è solo da preoccuparsi nell'assistere a quello che si è creato nel disinteresse comune, nell'idea – comoda e pigra – del "lasciamoli tutti là, tra di loro".
Oggi vai a Santhià, vai a Cuneo, vai a Caserta, vai a Civitavecchia o a Roma, e ovunque li trovi lì, in periferia ma non troppo, alti e grigi, sbrindellati e rigorosamente abitati sempre di più da soli stranieri. Monumenti alla mancata integrazione. Presagio e polveriera di un disastro che già si annuncia.
Sono passati dieci anni da me e dal mio palazzo grigio, ma lo ritrovo ovunque vado, come un fantasma. E qualche tempo fa, viene da me Fatima, una madre con tre figli: «Come casa vogliono assegnarmene una, al palazzo grigio, ma io non voglio andare là», mi dice.
Ma come, ancora? Eppure ci sono tante altre case popolari sparse in città, perché continuano a dare solo quelle ai marocchini, agli stranieri? Che senso ha ghettizzare tutti là, invece di dividerli nella città in modo tale che riescano a inserirsi al meglio nel tessuto sociale, nella loro città, e a integrarsi?
«Ma sono loro che vogliono stare insieme, non è colpa nostra». Mi ha risposto così il sindaco di quella piccola Italia in miniatura, quando gli ho chiesto perché i marocchini venivano mandati al palazzo grigio. Che così facendo si ghettizzavano ed era molto pericoloso. Che si stava creando una bomba sociale a orologeria. Mi aveva risposto come se si sentisse impotente. Come se non fosse lui a poter dettare, per il bene della città, una politica abitativa diversa, che tenga conto anche dell'integrazione degli ultimi arrivati. Persone che staranno lì a lungo, che saranno una parte importante di quello che la sua città sarà in futuro.
Sono anche tornata al palazzo grigio. A vedere quelli che "vogliono stare tra di loro". Ed è vero, stanno ancor di più tra di loro rispetto a quando li avevo lasciati. Ma la colpa va anche a coloro che sono riusciti a farli stare tra di loro. Ora sono davvero uniti.
Ma come sono tristemente diversi dal resto della città. Come sono lontani dalla realtà. Una specie di tribù, che parla una lingua sola e porta avanti usi e costumi uguali per tutti e dai quali risulta difficile ribellarsi e cambiare. Diversi dal mondo che li circonda e per niente contaminati dalla globalizzazione che dovrebbero vivere, mischiandosi per arricchirsi e progredire.
E invece li ho trovati lì, indietro, più indietro di dove stavano quando avevano appena lasciato il loro paese di origine. Occupati a fare gruppo e a sentirsi vicini, perché ormai sono certi che gli altri hanno deciso di ignorarli e di lasciarli in periferia. E a pagarne le conseguenze sono soprattutto i più piccoli, quelli nati in Italia, che sembrano nati negli anni Settanta in un paese qualunque del Nord Africa.
Le ragazze salgono sui pulmini per la scuola con il velo e chiacchierano tra di loro. E chi prova a ribellarsi, è ancora più sola, perché fuori non ci sono mani pronte all'integrazione. O fai gruppo o sei fuori. Ma fuori non ti vuole e non ti aspetta nessuno. E allora ai più deboli conviene stare dentro le mura del palazzo della mancata integrazione, ridisegnare il proprio piccolo mondo, e non importa se fuori è tutto diverso.
C'è chi il telegiornale italiano neanche lo guarda una volta al mese. La televisione per loro è la parabola sintonizzata su quello che succede in paesi lontani quali Marocco, Iraq o Egitto piuttosto che sulla crisi di governo tra Fini e Berlusconi. È così paradossale vedere che mentre in paesi quali il Marocco le parabole sono sintonizzate verso paesi occidentali, da occidente invece le parabole tornano a sintonizzarsi sui paesi di origine.
Quanto mi è costato dire a Fatima «mi dispiace, ma qui vogliono ancora che dal palazzo grigio ci debba per forza passare anche tu. Speriamo che questo ti dia forza e che tu riesca a lasciartelo alle spalle, per te e per i tuoi figli». Ma so che è difficile. E ogni giorno che passa lo diventa sempre di più.
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